Giurisprudenza

Uno dei capisaldi della nozione di giustificato motivo oggettivo è, secondo giurisprudenza pregressa, l’obbligo di repêchage, data la genericità con cui la legge lo inquadra in termini di «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (articolo 3, legge 604/66).

Il primo “pilastro” del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è il venir meno della possibilità di utilizzo del lavoratore, a seguito della soppressione della posizione lavorativa, ovvero del venir meno di requisiti soggettivi per lo svolgimento della prestazione. Il secondo è appunto l’impossibilità di un diverso utilizzo del lavoratore nell’ambito aziendale. Entrambe le circostanze vanno accertate dal giudice, al quale è però inibito il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che spettano al datore di lavoro.

L’articolo 5, legge 604/66 sancisce che l’onere di provare la sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento incombe sul datore di lavoro. Tuttavia, mentre non è mai stato in discussione l’onere del datore di lavoro di allegare e provare l’effettività del provvedimento organizzativo di soppressione del posto di lavoro, qualche problema è sorto con riguardo alla prova dell’impossibilità di repêchage; sul punto è intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 5592/16.

Un consolidato orientamento giurisprudenziale attenuava l’onere della prova in capo al datore ed assegnava al lavoratore l’onere di indicare al giudice le mansioni nelle quali riteneva di poter essere ricollocato e, solo successivamente, il datore avrebbe dovuto provare l’impossibilità di utilizzare il lavoratore nelle mansioni da quest’ultimo indicate.

La recente sentenza della Cassazione si pone in contrasto con l’orientamento menzionato poc’anzi, proponendo, alla luce degli ordinari principi processuali, l’esclusione di qualsiasi dovere in capo al lavoratore mediante una rigida identificazione dell’onere probatorio a carico del datore. Pertanto, il datore di lavoro potrà fornire la prova di fatto che le assunzioni effettuate in concomitanza con il licenziamento o in epoca di poco successiva (sei mesi, secondo l’orientamento prevalente) attengono a mansioni e profili professionali diversi da quelli del lavoratore licenziato.

Tuttavia, una ulteriore problematica poterebbe sorgere a seguito della recente modifica apportata al testo dell’articolo 2103 del codice civile, la quale ha ampliato i confini del potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore (cosiddetto ius variandi), estendendolo a tutte le mansioni corrispondenti al livello di inquadramento, e anche, in determinati casi, al livello inferiore. In conseguenza, è sorto il dubbio che ciò possa comportare una maggiore ampiezza anche in relazione all’obbligo di repêchage e dunque della relativa prova in giudizio.

Il punto rimane particolarmente delicato in quanto nell’eventuale decisione di adibire il lavoratore a mansioni completamente diverse (anche se inquadrate nello stesso livello del contratto collettivo) c’è una componente di discrezionalità organizzativa che compete solo al datore di lavoro, a cui il giudice non può sostituirsi. Pertanto, quest’ultimo potrebbe valutare l’utilizzabilità del lavoratore licenziato nelle mansioni assegnate al lavoratore successivamente assunto unicamente in termini di piena fungibilità tra i due.

Fonte: Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 marzo 2016, n. 5592.